La complessità di LHC in mano alle scienziate
Ho visitato la mostra “Donne alla guida della più grande macchina mai costruita dall’Uomo” pressol’Istituto Shenker, che, partner del progetto, la ospita a Milano e continuerà ad ospitarla nelle sue sedi italiane. Una visita estremamente piacevole per cui desidero esprimere la mia gratitudine a Elisabetta Durante, giornalista scientifica, che ha ideato e realizzato questa preziosa esposizione dedicata a ricercatrici italiane che stanno contribuendo alla realizzazione del grande Progetto europeo LHC. La nuova potente macchina acceleratrice di particelle riprodurrà in laboratorio lo stato della materia presente nell’Universo ‘bambino’ di 14 miliardi di anni fa, pochi istanti dopo il Big Bang: è questa un’ impresa senza precedenti, frutto della ricerca europea, in cui la Fisica italiana e l’INFN hanno avuto ed hanno un ruolo da protagonisti. Come insegnante di Matematica, trovo molto importante l’obiettivo della mostra di “comunicare alle nuove generazioni un modello di donna diverso da quello, piuttosto avvilente e tristemente omologante, che domina sui media: un modello di donna talvolta molto giovane, ma già avviata su un cammino di competizione internazionale e pienamente immersa in quella che sempre più sarà la società della conoscenza”. Per questo motivo ritengo che l’esposizione debba circolare soprattutto nelle scuole dove avrebbe una funzione positiva nell’orientamento delle studentesse alla scelta delle Facoltà scientifiche, soprattutto dove si insegnano le cosiddette “discipline dure” - Fisica, Chimica, Matematica, Ingegneria – in cui il numero degli iscritti negli ultimi anni ha subito un calo vertiginoso.
Il principale merito della mostra è quello di sottrarre all’anonimato tante giovani scienziate, mostrandone i visi (peraltro simpatici) e l’aspetto ‘fisico’ per farle conoscere al grande pubblico. Nell’immaginario comune la scienza ha infatti un volto maschile, e il ruolo significativo svolto dalle donne nell’ambito della ricerca dall’antichità ai giorni nostri è poco conosciuto. Nei pannelli che riportano loro brevi biografie, le ricercatrici vengono riprese in momenti di lavoro quotidiano mentre progettano, costruiscono, mettono in funzione o controllano parti del gigantesco e complesso acceleratore di particelle LHC. Immagini vivaci che comunicano al visitatore una sensazione di impegno e di fatica, ma anche di gioia e di soddisfazione per il fatto di partecipare a un progetto importante. L’esposizione mi è sembrata in qualche modo la prosecuzione ideale di un’altra mostra che ho curato nel 1997: “Scienziate d’occidente. Due secoli di storia”, prodotta dal PRISTEM dell’Università Bocconi come esito di una ricerca collettiva sul rapporto delle donne con la scienza. Quello studio ha mostrato che ovunque abbiano avuto la libertà e il potere di farlo, le donne si sono sempre occupate di scienza e che sono state a lungo delle eccezioni solo perché i luoghi di produzione del sapere erano riservati agli uomini. Solo nel 1867 un’università scientifica, l’Ecole Politecnique di Zurigo, ha accettato per la prima volta l’iscrizione di una donna, e bisogna attendere il 1878 per avere la prima laureata italiana in una materia scientifica.
L’esposizione di Elisabetta Durante mi ha fatto pensare anche alle scienziate che hanno avuto un ruolo decisivo nel Progetto Manhattan, che vide almeno 85 donne al fianco di Enrico Fermi, e alle programmatrici dell’ENIAC, il primo computer della storia, che fu costruito nel 1944, per calcolare le traiettorie balistiche durante la seconda guerra mondiale, compito svolto fino ad allora manualmente da 80 matematiche. Le “Ragazze dell' ENIAC” sono venute alla ribalta solo cinquant’anni dopo, grazie al premio assegnato loro nel 1996 dall'Associazione americana “Women in Technology International”, che promuove le figure femminili che hanno dato un contributo all'innovazione industriale. Durante l’inaugurazione della mostra ci siamo interrogati sulla cancellazione delle donne di scienza e del loro operato dalla memoria storica, un fenomeno che non è attribuibile solo alla responsabilità degli storici, ma che è stato favorito dal fatto che sovente, per essere prese in considerazione, le scienziate nel passato dovevano pubblicare col nome dei mariti o con uno pseudonimo maschile e perciò le loro opere venivano attribuite a uomini. Abbiamo ricordato il caso di Sophie Germain, che nell’Ottocento si firmava Monsieur Le Blanc per poter corrispondere col matematico Louis Lagrange e sottoporgli i suoi lavori sul calcolo infinitesimale e abbiamo sorriso della paradossale vicenda di Trotula de Ruggiero, medica medievale della rinomata Scuola delle Mulieres salernitanae che, nonostante firmasse le sue opere col proprio nome, nelle trascrizioni successive se lo vide cambiato nel maschile Trottus, perché qualche zelante copista ritenne impossibile che una donna avesse delle competenze in campo medico. Sarà, invece, grazie alla mostra di Elisabetta Durante che ricorderemo che “la complessità di LHC è in mano alle donne”, anche italiane.
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